martedì 26 aprile 2011

Kobe Bryant aka The Black Mamba


Il draft del 1996 è stato uno tra i più importanti degli ultimi 30 anni di NBA, avendoci regalato talenti di livello assoluto e nomi che rimarranno impressi per sempre nell’olimpo dei più grandi giocatori di questo sport. L’elenco di stelle è quasi imbarazzante da ripetere: a partire da Iverson ( prima scelta assoluta e matricola dell’anno a fine stagione) e passando per Nash e Ray Allen, per giungere al giocatore che più di tutti porterà la classe 1996 a essere ricordata, Kobe Bryant: 1,98 m per 93 chilogrammi, guardia, anno di nascita 1978.

Bryant all’epoca era un diciassettenne che aveva fatto faville all'high school e che rappresentava una speranza più che una reale certezza. Venne scelto solo alla numero 13 da Charlotte, che lo cedette ai lakers.
Da questo momento in poi è storia.
Parlano per lui i cinque anelli vinti, il titolo di MVP del 2008, i due mvp delle finali, le 13 chiamate all’all star game e le 8 nomine a primo quintetto assoluto e primo quintetto difensivo.
Ma cercare di ingabbiare la straordinaria presenza sul parquet del Mamba con i numeri non sarebbe solo riduttivo, ma anche oltremodo stupido.
Bryant è un giocatore totale, in grado di dominare le partite a piacimento, capace di prestazioni mostruose e di una costanza di rendimento incredibile.
Gli 81 punti contro Toronto sono la punta di un iceberg gigantesco, impostato sugli oltre 27000 punti, i quasi 6000 rimbalzi e i 5000 assist.
In quindici anni di NBA Kobe si è preso tutto quanto il proscenio con un carisma e una sicurezza nei propri mezzi disarmanti, caratteristiche che non sempre lo hanno reso simpatico agli occhi dei critici: la convivenza con Shaq, come esempio lampante, non è stata delle migliori quando Shaq era il giocatore più dominante della lega e Bryant stava scalciando per prendersi il posto che credeva gli spettasse, ma alla fine dei conti hanno avuto ragione tutti e due, e ha avuto ragione Phil Jackson che è riuscito a trarre il massimo dal duo meraviglia.
Chi continua ad accusare Bryant di essere egoista e di passare poco la palla probabilmente non si rende conto del fatto che nella pallacanestro conti segnare punti e vincere le partite e continua a fare finta di non accorgersi di come i compagni di Bryant migliorino i propri rendimenti quando affiancati al figlio di Jelly Bean.
Il giocatore più rappresentativo dei Los Angeles Lakers sembra essere in grado di fare qualsiasi cosa sul campo con una disinvoltura ed un’eleganza al di fuori della norma, e spesso i suoi deliri di onnipotenza assomigliano sinistramente alla realtà dei fatti.
Kobe può attaccare il canestro in qualsiasi modo, grazie ad un fisico che è il prototipo di quello della guardia, un atletismo inumano e dei polpastrelli sensibilissimi. Può entrare contro la difesa schierata, prendersi il tiro dalla media con la mano in faccia, o tirare da tre in qualsiasi situazione. Sa giocare spalle a canestro ed è dotato di un fade away Jordanesco. Se si aggiunge a tutto questo lo straordinario talento di  passatore, insieme ad una visione di gioco e una conoscenza della pallacanestro che è davvero di pochi, si capisce per quale motivo Bryant sia da considerarsi il giocatore più immarcabile degli ultimi dieci anni.
Dall’altra parte del campo, quando la palla è in mano agli avversari, Kobe ha sempre mostrato capacità e attitudine per il lavoro difensivo, riuscendo ad eclissare i suoi avversari grazie all’esplosività di cui è dotato e allo straordinario tempismo che caratterizza la sua bravura nel leggere le azioni e le partite.
Un giocatore con le sue caratteristiche tecniche e fisiche si sarebbe potuto fermare soltanto da solo per colpa di un atteggiamento sbagliato nei confronti del gioco e del lavoro da compiere per crescere, ma come nel peggiore incubo di qualunque avversario dei Lakers, a Kobe non è mai mancata la fame di vittorie e la consapevolezza di doversi mettere in discussione in palestra e sul campo con il lavoro duro.
L’atteggiamento con cui prende a morsi le partite è da campione assoluto, di chi è consapevole di essere il numero uno e capisce di doverlo dimostrare ogni giorno e di dover  mantenere quel titolo di fronte a tutti quelli che potrebbero soffiarglielo.
Vedere giocare Kobe è un piacere per gli occhi: è elegante e potente, spigoloso e sinuoso, arrabbiato e romantico.
Non c’è termine di paragone per confrontare Kobe Bryant se non quello scomodo, pericoloso e quasi blasfemo con sua maestà Michael Jordan: Bryant gli somiglia in tutto da sempre, per quanto riguarda le movenze, gli sguardi, per il modo in cui dimostra amore e passione per il gioco.
Perchè Kobe non ha più vent’anni e una carriera promettente di fronte: il Mamba è cresciuto, ha vinto tutto, ha largamente dominato la lega, ha spodestato presunti re e ha costruito una dinastia sulle sue spalle.
L’unico paragone accettabile è quello con Jordan per il numero di trofei vinti e per il senso di onnipotenza che i due sono riusciti a trasmettere per periodi di tempo così lunghi.
Nessun altro giocatore del basket moderno può vantare un curriculum di quello spessore e una presenza tanto devastante sul parquet, e le giovani stelle di oggi dovranno ancora sudare e lavorare molto, vincere e costruire numeri prima di poter raggiungere un livello di perfezione cestistica tale da metterli a confronto  con Kobe.
Perchè se c’è un re, e solo uno, per ogni epoca storica, allora la nostra appartiene a Kobe Bryant, perchè la storia è oggettiva di tanto in tanto.
P.S. Chi ha scritto l’articolo è da sempre conosciuto come uno dei più grandi Kobe Hater di tutti i tempi. Grande tifoso dei Philadelphia 76ers e fan accanito di Iverson, non ho mai saputo accettare la superiorità di Kobe fino a quando non si è palesata di fronte a me in tutta la sua tetra crudezza. Ricordo fin troppo bene il 2001.



Nessun commento: