venerdì 6 maggio 2011

Allen Ezail Iverson aka il più piccolo MVP della storia

Rivoluzione, ecco il termine giusto.
Il più piccolo MVP di tutti i tempi.
Uno dei più grandi realizzatori di sempre.
Il centro, come si diceva sopra, di una vera e propria rivoluzione cestistica e culturale esplosa nell’NBA.
Qualcuno lo ha definito “la cosa più veloce mai vista su due gambe” (grazie avvocato!).

Uscendo da Georgetown in anticipo Allen Iverson riuscì a stupire l’NBA e il mondo fin dal suo anno da rookie, nella stagione 1996/97, grazie ad una personalità fin troppo forte e un talento per il gioco della pallacanestro con pochi eguali in assoluto.
In una stagione ricca di matricole di talento riuscì a spiccare grazie ad una capacità di attaccare le difese avversarie come raramente, o forse mai, si era visto per un esordiente: 23.5 punti a partita, 7.5 assistenze e 4.1 rimbalzi, una serie di cinque partite consecutive con quaranta o più punti, la consapevolezza di poter dominare il parquet e l’impressione che il limite fosse il cielo (per citare un artista caro ad Allen).
La straordinaria velocità di Iverson e il suo gioco spettacolare e sfrontato riuscirono ad attirare l’attenzione del pubblico e dei media da una parte e ad umiliare le difese avversarie dall’altra, permettendogli di prendersi di forza il rispetto e l’ammirazione di tutto il mondo cestistico oltre al meritato titolo di matricola dell’anno e a quello di miglior giocatore del rookie challenge.
Da quel momento in poi Iverson s’è guadagnato il proscenio della lega più importante al mondo, prima nel ruolo di playmaker, poi in quello di guardia, che gli era più congeniale tecnicamente ma in cui era sovrastato fisicamente dai suoi avversari.
L’idea di spostarlo in guardia fu di Larry Brown, allenatore fondamentale nella carriera di Allen. il rapporto fra i due fu difficilissimo sin dall’inizio, ma lo scontro con il coach servì sicuramente ad Iverson per crescere caratterialmente e per raggiungere un livello di conoscenza della pallacanestro che sembrava mancargli nei primi anni di carriera.
Giocando guardia Iverson diventa per quattro volte il capocannoniere della lega, e quando un giocatore che (forse) raggiunge a malapena il metro e ottanta diventa per quattro volte il miglior marcatore della NBA è difficile non pensare ad una rivoluzione.
Allen ha cambiato il ruolo del playmaker aprendo la strada ai moderni registi realizzatori che imperversano oggi nella lega.
Ma Iverson è stato anche il seme di una rivoluzione culturale all’interno dell’NBA: a partire dai pantaloncini larghissimi, i tantissimi tatuaggi e i cornrow sulla testa, ha trasportato, in una lega molto attenta all’etichetta, un “hip hop state of mind” fatto di atteggiamenti e mentalità, prima ancora che di abiti larghi e musica rap.
“The Virginia’s finest” fu da subito catalogato come “bad boy”, e lui non sembrava preoccuparsene minimamente: la sua storia passata lo aveva messo di fronte alla giustizia e a tante ingiustizie, e se era riuscito ad uscire vivo dal ghetto, dalla povertà, e da ogni disagio piccolo o immenso che ne conseguiva, era solo grazie a se stesso e alla sua forza, come recita il tatuaggio sul suo braccio.
Mostrava il suo orgoglio per tutto quello che era, senza preoccuparsi del giudizio, o forse nutrendosi di quel giudizio. Un b-boy fiero.
Ma sto divagando.
Torniamo all’Iverson giocatore.
Allen ha giocato a Phila fino al 2006 e nella città dell’amore fraterno ha vissuto i suoi anni migliori, giocando una finale NBA ( persa contro i Lakers versione treno in corsa del 2000/2001), vincendo il titolo di MVP ( è il giocatore più basso della storia ad aver ricevuto il trofeo) nella stessa stagione e prendendosi letteralmente sulle spalle la squadra per tutta la durata della sua permanenza.
È stato una macchina offensiva temibile, capace di tenere una media in carriera superiore ai 26 punti per partita e di incorniciarli con più di 6 assist.
Le armi che gli permisero di fare la voce grossa in attacco furono il suo crossover diventato ormai proverbiale, e soprattutto una determinazione che andava fuori dagli schemi: sembrava di vedere un berserker quando si buttava in mezzo all’area sovrastata da giganti che lo doppiavano per peso. E si rimaneva stupiti ogni volta che si rialzava battendosi i pugni sul petto.
“Fear no one”, un altro dei suoi tatuaggi.
B-boy fiero.
Un jumper mortifero e un’intelligenza cestistica premonitrice si scontrarono in continuazione con la stupida ostinazione a volersi prendere sempre troppi tiri, a fare da sè quando non sentiva che i suoi compagni fossero all’altezza della situazione.
Sul versante difensivo Iverson è stato in grado di sfruttare la sua esplosività per essere una minaccia costante sulle linee di passaggio, mantenendo una media di oltre 2 palle rubate per ogni volta che è sceso in campo.
Il figlio prediletto di Philadelphia vinse tutto a livello individuale, fu per 6 volte all star ( altre 5 volte negli anni successivi), 2 volte miglior giocatore della partita delle stelle, 3 volte nel quintetto ideale della lega e per altre 3 volte nel secondo quintetto.
I quattro anni successivi, passati tra Denver, Detroit, Memphis e ancora Philadelphia, furono un calvario di adattamenti, infortuni, incomprensioni.
La fine di un’era.
Un’era fatta di dominio a livello tecnico e di continue cadute caratteriali: Iverson non ha mai mostrato una spiccata propensione alla disciplina o al rispetto delle regole e sono state troppe le tensioni nate a causa delle sue frequenti assenze agli allenamenti ( per chi non la ricordasse : conferenza stampa PRACTICE)
Il carattere difficile di Iverson insieme alla scarsa maturità dimostrata sia in campo che fuori dal campo, sono state le catene che lo hanno ancorato alla terra, l’altra faccia della medaglia della sua enorme sicurezza nei propri mezzi.
La scarsa fiducia nei compagni e negli allenatori e la sua presunzione esagerata sono stati i virus di un giocatore che ha coinvolto sempre troppo poco la squadra e che si è circondato di rapporti difficili, soprattutto con chi avrebbe dovuto guidarlo.
La pena fu severa: Iverson non è mai riuscito a vincere un titolo, relegandolo nel limbo di quei grandi senza anello di cui è piena la storia NBA e viene ricordato da molti come un giocatore molto più egoista di quanto in realtà non fosse.
Ma in fondo un personaggio di quel tipo o lo si ama o lo si odia, non esistono vie di mezzo o tonalità di grigio.
Il fenomeno Iverson è imperniato intorno a questa dicotomia di amore incondizionato o razionale scetticismo: non ha vinto ma ha stupito ed emozionato, fu un innovatore, ma troppo spesso una minaccia, assolutamente genio e sregolatezza.
The answer.



P.S. Non c’è assolutamente nulla di imparziale in questa descrizione di Allen Iverson. Uno dei più grandi amori della mia vita.




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